Ci è arrivato tempo fa una raccolta di lettere e di corrispondenze fra un cappellano militare e la Sacra Gerarchia Castrense: è la storia «del dramma di un sacerdote, impossibilitato ad un colloquio schietto con i suoi capi ecclesiastici, perché inseriti pienamente nel sistema ordinatamente stabilito».
Sono lettere sia quelle del cappellano, che dopo dieci anni di appassionata dedizione del suo sacerdozio nel mondo militare, finalmente si decide a cancellare dalla sua carta intestata e sicuramente anche dalla sua anima, la parola «militare» lasciando limpida e liberata la parola «prete», sia e particolarmente, le lettere dei suoi superiori ecclesiastici, sono una corrispondenza, tutta comunicata in fotocopie, di estremo interesse per avere esperienza diretta di tutto quel mondo di Chiesa realizzato nelle rigidezze della disciplina militare, rafforzate dal militarismo dell'inflessibilità imperturbabile ecclesiastica.
Passiamo ai nostri amici la lettera di congedo del cappellano all'Arcivescovo Ordinario Militare per I'Italia, è del 16 aprile 1970 e la splendida risposta del vescovo.
Queste due lettere possono ben servire alla preparazione del grande pellegrinaggio per l'Anno Santo che le forze armate italiane prima, e poi quelle della NATO, faranno a Roma per acquistare il giubileo e realizzare la riconciliazione.
N. B. - Non pubblichiamo il nome del cappellano, non sapendo bene se ci può essere consentito.
Sig. Vescovo,
è terminato, con ieri, il mio lavoro tra i giovani militari. Un impegno che mi piacque sempre; che mi entusiasmò nei miei anni di sacerdozio. Posso dire (è vero che non toccherebbe a me, ma ritengo che anche questo riconoscimento sia giusta equazione spirituale) d'essermi affaticato per quei giovani. Niente di speciale e di straordinario, perché così concepivo il ministero sacerdotale: essere sempre a disposizione di quelli a me affidati.
Partii dalla diocesi non perché allontanato, né per contrasto con l'Ordinario, né per cercare una sistemazione economica migliore, ma solo perché attratto dalle possibilità di lavoro tra i giovani che avrei incontrato a masse, ai quali avrei potuto portare la parola di Dio, con i quali avrei stabilito rapporti umani di amicizia, di stima e di fiducia reciproca.
Ritengo d'essere riuscito non solo su questa linea umana, ma anche sulla linea divina, dove però i risultati non possono essere noti attraverso statistiche. Sta di fatto che, come scrive S. Paolo, portavo dentro di me le sofferenze dei miei assistiti e quanto più conoscevo la loro fatica umana e spirituale, tanto più divenivo nei loro confronti comprensibile e umano. Veramente amavo quei giovani bersagliati da ogni parte, indifesi, deboli perché neppure il diritto di rifiutare un insulto (fatto loro da chiunque si sentisse superiore) era dato loro.
Quando percepii più profondamente questa esigenza di difesa cozzai contro il muro dell'istituzione, non tanto gerarchica militare, quanto gerarchica ecclesiastica. .
Da questa presa di coscienza nacque la mia azione (ritenuta stravagante) di effettivo avvicinamento a quei giovani. La mia pena e il mio interessamento per loro si fecero sempre più vivi fino a creare una incrinatura fra noi (loro e io) e l'istituzione.
Il giuridicismo dell' autorità ecclesiastica mi fece vedere l'impossibilità a continuare il lavoro e mi portò alla decisione di lasciare l'ambiente, il quale ultimamente, divenne ancora più ostico, per le limitatissime visioni del Comandante, che trovò un caldo appoggio nel 1.° Cappellano Capo Bonadeo (il quale, nel giorno delle consegne, si espresse infelicemente in questi termini: «Ormai potete godere il vostro carnevale, perché il cappellano non c'è più», e pure in lei.
Mi permetta che, per l'ultima volta, le esprima il mio disappunto d'aver avuto superiori ecclesiastici che volentieri ascoltarono pettegolezzi sul mio conto senza approfondirli e di aver scartato un elemento importante nel giudizio a mio riguardo: la comunità.
Mt. 18,15-17 assegna alla comunità un compito preciso nel giudizio di un colpevole. Non mi consta che lei abbia tenuto presente questo fattore. Se l'avesse fatto (non accontentandosi solo di sentire due o tre cappellani capi più o meno prevenuti e più o meno desiderosi di far carriera o due o tre comandanti giuseppinismi e amanti del quieto vivere) forse non saremmo arrivati a questo risultato.
Se fosse reale il motivo dell'incompatibilità del mio carattere con la vita militare, come lei in continuità scriveva e andava dicendo a tutti, le pare che avrei resistito per circa otto anni?
Mi dispiace che anche lei, vescovo, si sia prestato al gioco di pettegolezzi e abbia trasferito nell'ambito personale la mia questione, considerando il tutto materia valida di giudizio negativo su una persona. Con la sua scienza giuridica poi seppe ben barcamenarsi, Ma mi sembra che non sia col diritto che si governa paternamente una diocesi né si guidino amorevolmente delle persone. Ritengo che la carità trascenda i confini del diritto.
. Mentre esco dalle file dei cappellani militari, mi auguro che questi trovino più larga paternità e fraternità dal loro vescovo; che possano vederlo meno dedito all' organizzazione ma più vicino a se stessi con la comprensione; che, a tempo giusto, si sentano da lui anche protetti e difesi: il ché non avverrà col codice bensì col Vangelo in mano. Che se non si capacita in questo ambito, trovino in lui un esempio di saggezza nel coraggio di cedere il posto.
A lei l'augurio che riesca a tradurre questo rapporto umano e paterno con tutti.
Gradirò una risposta, sempre che i suoi molteplici impegni glielo permettano.
Doveri.
Ed ecco la risposta «militare» dell'Arcivescovo Ordinario Militare dell'Italia:
Rev.mo e caro don
riscontro la Sua del 16 scorso.
Le auguro serenità nel nuovo lavoro.
Con un cordiale ricordo, e in preghiera, mi dichiaro
(firma autografa)
in Lotta come Amore: LcA novembre-dicembre 1974, Novembre 1974
Luigi Sonnenfeld
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