Una croce bianca

Mi sono trovato a camminare sulla strada, quasi alla testa di un corteo di operai e di studenti in sciopero, portando in mano come segno di protesta, di dolore e di lotta una piccola croce bianca costruita in fretta nella Camera del Lavoro della nostra città. Eravamo in sei o sette a portare la croce per strade poco affollate, in mezzo a gente assai distratta, e che vedendo quello strano segno in cima al corteo non riusciva a capire il suo significato. Infatti, cosa ci sta a fare una croce in una manifestazione di protesta contro l'egoismo di un mondo economico e sociale che tende a scaricare tutto il peso dei suoi malanni sulle spalle della gente più umile?
La gente che era sui marciapiedi e sulla porta dei negozi o dei bar non sapeva certamente che il giorno prima, nel pomeriggio dolce e luminoso del sole d'ottobre, avevamo portato al cimitero un operaio ormai vicinissimo alla pensione, entrato a 17 anni nella grossa officina di riparazioni di carri ferroviari (la FERVET, padrone cattolico con sede centrale a Bergamo), e che da lì era uscito a 56 anni col cranio fracassato dallo scoppio di una binda ad aria compressa che lo aveva ucciso sul colpo. Tutta una vita di lavoro, di sacrificio, di giornate consumate nella fatica e nell'impegno duro per il pezzo di pane, la famiglia, i figli (una vita servita come quella di tutto il mondo operaio alla ricchezza e alla star bene di pochi): ora era lì, chiuso dentro la bara col volto sfigurato, le labbra sigillate nel silenzio che in pochi attimi era calato su di lui dalla macchina che stava cercando di riparare. Una macchina vecchia, logorata dal tempo, sicuramente mai più controllata e collaudata da chissà quanto tempo e che la Direzione dell'azienda non si era preoccupata di cambiare, nonostante che alla FERVET in pochi anni ci siano stati ben tre morti sul lavoro. La fabbrica diventa campo di battaglia, dove uno va e non sa se la sera. potrà ritornare a casa: e questo non per il destino che pesa sulla fragilità della vita di tutti ma per il lavoro diventato un pericolo dl morte anziché un'opera di vita.
La moglie, povera donna lacerata fin dentro l'anima, mi raccontava che al mattino lui se n'era andato da casa come sempre e lei se ne stava fuori dell'uscio a guardarlo partire; e come sempre l'aveva salutata con la mano prima di svoltare l'angolo della via che lo doveva condurre, come vittima dell'egoismo e dello sfruttamento, alla sua croce, al suo calvario che l'aspettava tra le lamiere dell'officina, poco prima di mezzogiorno.
La sua croce... ora era sulle sue spalle che veniva deposta ed era lui che si mandava al macello in nome di un sistema di lavoro dove l'uomo è ridotto a numero, a ingranaggio che deve semplicemente produrre e servire. Quella croce di passione e di morte quanti l'hanno portata in questi nostri tempi, in tutte le fabbriche, i cantieri, le officine del nostro mondo industriale che mentre sei vivo ti sfrutta e quando sei morto ti manda una corona d'alloro e di fiori con sopra scritto "La Società FERVET". C'era anche quella corona in mezzo a quelle del Partito, degli amici, delle organizzazioni sindacali, dei parenti e familiari: la processione era lunga, i compagni di lavoro lo hanno portato a spalle dall'obitorio dell'ospedale al cimitero; poi la bara è scivolata in fondo alla fossa e la terra l'ha ricoperta e tutto era finito. E noi eravamo lì a cercare di raccogliere una vita intera che spariva dentro la terra e a gridare dal fondo dell'anima che Dio Padre raccogliesse nel suo Amore, nella sua Giustizia, questo seme di esistenza operaia, questa vita di lavoro, di fatica, di sudore, di tenerezza e di amore. Abbiamo sussurrato una preghiera, abbiamo segnato col segno della benedizione cristiana quella zolla di terra in cui spariva qualcosa di tutti noi, qualcosa della classe operaia, del mondo della povera gente, mangiata dalla fatica ma molto di più dall'egoismo dei ricchi e dei potenti. E mi sembrava di essere come inghiottito anch'io da quella tomba aperta e mi sentivo pesare sul cuore quella montagna di terra che scendeva inesorabile su quel compagno operaio: segno tremendo di tutta la montagna d'ingiustizia e di indifferenza che grava sulla storia della povera gente di tutti i tempi e di tutti i paesi.
E ad aumentare la tristezza e quasi l'angoscia di quel momento c'era senza dubbio l'amarezza di non aver visto tutti i compagni operai delle fabbriche, dei cantieri della città, a quel funerale. Avevo tanto desiderato che alle tre del pomeriggio i cancelli di tutte le officine si aprissero per lasciar scorrere il fiume di operai che si dirigevano così com'erano all'obitorio dell'ospedale per l'ultimo addio ad un compagno caduto sotto un carico così pesante. Uno di famiglia, uno di casa, un parente nel senso più profondo della parola; perché non c'è solo la carne e il sangue a renderci prossimi, ma tutta una vita, una condizione umana, un modo di consumare la propria giornata, un medesimo destino, una stessa sopraffazione e una stessa lotta... Non potevo sopportare che in quel momento le fabbriche funzionassero, i cantieri fossero attivi e tutto procedesse normale come se niente fosse successo.
E' vero, al mattino dalle 10 alle 10 e 15 avevamo fatto una fermata del lavoro: ma che cos'è un quarto d'ora di tempo per chi ha perso la vita... Li avrei voluti tutti lì, tutti stretti intorno alla bara, con le tute sporche e le mani nere, ma non certo per fare spettacolo o colore, ma perché si fosse tutti insieme grido di protesta, accusa chiara alla crudeltà del capitale che schiaccia l'uomo, segno deciso di una comune volontà di lotta per un mondo più umano, più a misura d'uomo. Un mondo fatto per la vita e non per la morte. Tutti stretti intorno a lui, perché lui era un operaio, un compagno, un crocifisso al posto di noi tutti. Perché oggi era toccato a lui, ma domani chissà...
Ma i miei compagni non c'erano - solo pochissimi in confronto all'insieme del cantieri e delle officine - e la solitudine si faceva più grande e mi sentivo sparire dentro questa solitudine anche se la Fede mi sosteneva a credere che nel buio di questa povertà in cui spariva il mio compagno ucciso c'era l'Amore di Dio, l'Amore del Compagno Cristo che con le sue mani forate dai chiodi della sua croce raccoglieva la vita e la storia di chi come Lui era rimasto vittima dell'oppressione.
Per questo, il giorno dopo ho preso volentieri la croce bianca e l'ho portata per le strade della città, in mezzo ala gente distratta che non capiva quello che voleva dire. Per me era come continuare a gridare a tutti questa storia di passione, di croce, di violenza e di morte che ogni giorno si abbatte sul popolo del lavoro e che aveva schiantato come un fulmine il compagno della FERVET,
Ed era anche un segno di lotta, una volontà di non accettare e di non rassegnarsi a questo mondo assurdo e oppressore, un desiderio profondo di respinta di tutta la disumanità e l'ingiustizia che grava sulla vita quotidiana di tanta povera gente.
Croce bianca di speranza, di fiducia nella crescita di un modo di vivere diverso, di croci vuote, senza più crocifissi né crocifissori: di classi e di popoli in rivolta contro chi voglia continuare a sfigurare il volto dell'uomo e a renderlo oggetto d'interesse e di privilegio.
Croce bianca a indicazione di amore fraterno, allargato a misure universali, come un fiume capace di travolgere e spazzar via ogni egoismo e ogni sfruttamento.
Mi ci tenevo stretto a quella croce e non riuscivo a guardare nessuno lungo la strada: avevo davanti agli occhi quella bara scura, quella tomba aperta, quel gran mucchio di terra che s'era portato via una vita intera di lavoro, di sacrifici, di tanto amore. E allora la mia croce bianca mi pareva si tingesse di rosso, come di sangue vivo, e diventava un grido di dolore a lacerare come spada l'orgoglio, la disumanità dei ricchi che campano succhiando il sangue dei poveri.


don Beppe


in Lotta come Amore: LcA novembre-dicembre 1974, Novembre 1974

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