Pensieri di un manovale

Voglio continuare ad offrire quello che nell'esperienza della vita quotidiana vissuta fianco a fianco dei miei fratelli e compagni operai si agita e si rimescola di continuo dentro di me. Fra le mura che ogni giorno, per otto lunghe ore (molto più lunghe di quelle segnate dall'orologio), ci chiudono sul pezzo di spiaggia su cui sorge il cantiere navale è logico che si affollino e ribollano nel profondo dell'anima un insieme di pensieri, di intuizioni appena abbozzate, di chiarezze come quando le nubi basse si allargano e lasciano libere nella luce del mattino le Alpi Apuane che fanno corona al nostro mare.
Ai miei compagni operai sono debitore ogni giorno di tutta un'urgenza di fedeltà, di serietà d'impegno, di dono autentico della mia vita, di limpidezza di rapporto umano che il mio essere sacerdote e cristiano non può che rendere ancora più esigente e profondo. Il cantiere, con tutta la vita di lavoro e di fatica che ogni giorno vi si svolge, con il suo peso umano di chi prende nelle sue mani la materia fredda e senza forma e la rende viva, diviene sempre più uno spazio sacro, un luogo di comunione col mistero di Dio raccolto nel cuore stesso della vita. Allora viene voglia di sognare ad occhi aperti, di fantasticare miracoli di novità cristiana, di desiderare dal fondo di se stessi lo zampillare di sorgenti d'acqua pura in una vita di Chiesa (quella visibile, storica e che pesa così tanto sulle spalle del mondo operaio) che possa riproporre a chiari termini, senza possibilità di equivoci, la « buona notizia» di Gesù Cristo. Una vita di Chiesa, degli uomini della Chiesa (perché poi diventi quella di tutto un popolo) che porti come una ventata di Vangelo nel groviglio delle vicende umane per accendervi energie di liberazione, di giustizia, di comunione fra tutti gli uomini.
Così può succedere, a me che sono nient'altro che un manovale, vale a dire uno che non conta nulla, che non può avere nessuna influenza o importanza, di lasciarsi andare ai sogni più strani, forse assurdi e liberi come quelli di quando eravamo bambini.
Ho sognato, così, che il vescovo (naturalmente di una diocesi che non esiste) aveva deciso, un giorno, di lasciare il palazzo della curia. Se n'era andato quasi di nascosto, senza far rumore, senza proclami, ma deciso a non rimettervi più piede. Aveva preso una decisione semplice e meravigliosa: sarebbe vissuto, da quel giorno in poi, fra la gente, in mezzo al popolo a lui affidato, al gregge di cui era stato fatto pastore. Era successo tutto come all'improvviso): aveva compreso che bisognava mettersi sulla strada, perché lui era il servitore fedele e attento ai bisogni della sua famiglia e doveva essere pronto, come chi porta il pane in tavola, prepara il vino e accende il fuoco nelle sere fredde. Sarebbe vissuto senza una casa sua, senza una pietra (e quindi libero da qualunque legame politico, economico...): avrebbe avuto una vita libera, allo scoperto, senza più segreti fra lui e il popolo.
Una vita a cuore aperto per raccogliere le ferite, le stanchezze, le angosce dei fratelli ed anche le loro speranze, la gioia, il desiderio della verità e dell'amore. Sarebbe stato uomo libero, di tutti, a tutti debitore della Parola di Dio, dell'acqua viva del Vangelo, della luce della Resurrezione di Gesù. Avrebbe fatto l'esperienza concreta del lievito che si perde nella pasta, perché solo così sarebbe stato possibile fermentarla verso una vita più grande.
Si era proposto di vivere col lavoro delle proprie mani, in modo molto semplice, restando in casa dei suoi preti, mangiando e pregando con loro, spingendoli ad una vita seria, donata, spesa interamente per gli altri, specialmente per i poveri, gli emarginati, gli sfruttati, i perseguitati..
Ed era successo una cosa straordinaria: si vedeva ogni tanto, in giro qua e là per la diocesi qualche parroco alla ricerca del vescovo. Ora lo trovavano nei campi, a dare una mano ai contadini nei lavori di stagione; ora dovevano arrampicarsi per i viottoli dì montagna perché quel giorno erano i boscaioli che se l'erano preso a giornata.
Spesso bisognava scrutare il mare, sulla sera, in attesa che i pescatori rientrassero dal lavoro perché il vescovo stava vivendo con loro, quasi nel ricordo di quei primi pescatori di Galilea che avevano incontrato il Cristo sulla piccola spiaggia del mare di Tiberiade.
E in città era proprio difficile trovarlo: bisognava inseguirlo dal carcere all'ospedale, dagli ospizi dei vecchi ai .quartieri più poveri, ed era un'impresa scovare i suoi nascondigli. E i preti se ne tornavano a casa, dopo l'incontro, con un grande scombussolamento in cuore, più che se avessero letto cento lettere pastorali o schemi e progetti di programmi catechetici. La teologia scoperta nelle mani e sul volto del vescovo (e com'era facile vedere quella del suo cuore!) li metteva in crisi, li costringeva a correre in chiesa, ad aprire il vangelo e scavare nel mistero di Dio, nella vita di Cristo le misure di un impegno nuovo, a servizio del regno di Dio fra il popolo.
E fra la gente, nella diocesi, ormai s'era diffusa e radicata una chiara convinzione: era successo un fatto rivoluzionario, da tanto tempo atteso - anche se inconsapevolmente - da tutti. C'era come un sapore nuovo nelle cose, come di vino nuovo e di pane fresco appena sfornato.
Il vescovo stava facendo cose a prima vista cosi «pazze», strane, che non si poteva pensare che due cose: o era improvvisamente ammattito, oppure era uomo di fede grande e profonda, ci credeva proprio in Dio, in Gesù Cristo, nel Vangelo. Ed era questo che la gente pensava con sempre maggiore certezza: che proprio ci credesse sul serio, che davvero il regno di Dio era la sua unica passione, perché in fondo, a rifletterci bene, quello che il vescovo si era messo a fare era cosa vecchia, semplice, normale come il modo di vivere degli apostoli (di cui ora si capiva subito che lui era «successore»), come il modo di vivere di Gesù (com'era chiaro che era suo discepolo), come la vita dei poveri per i quali in primo luogo era stato consacrato. Così, in maniera molto semplice, tutti si stavano rendendo conto che un soffio potente di primavera stava penetrando nei vecchi muri della Chiesa e che fra le crepe cariche di secoli una vita nuova, limpida come il chiarore del primo mattino, stava rinnovando tutte le cose. Era come una nuova nascita, l'apparire di un mondo tante volte desiderato, atteso, ma che sembrava potesse esistere solo nel sogno di qualche esaltato...
In effetti, il sogno ormai è finito. Si vede bene che è un bisogno da manovale, da uno che proprio non conosce la complessità di un mestiere che ha tante regole, esigenze, specializzazioni. Forse più che un sogno è un farneticare sconnesso, come uno che ha preso un colpo in testa; forse è come sognare - e quindi illudersi - che il padrone del cantiere si «converta» e si metta a fare l'operaio. Ma lui è chiaro che crede nel «dio quattrino», nel dio-capitale; ma da chi sicuramente crede nel Dio-Amore, nel Figlio di Dio, nello Spirito Santo, forse è legittimo e buono aspettarsi certe cose. Anche se sono uscite dal cuore di un modestissimo manovale che però vorrebbe tanto dare una mano perché la «barca di Pietro» (e non è forse questo un sogno di Dio?) non andasse a fondo almeno nel cuore della povera gente.


in Lotta come Amore: LcA settembre-ottobre 1974, Settembre 1974

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