Pensieri di un manovale

C'è qualcosa di molto essenziale che ogni giorno ci è dato di scoprire nel ritmo pesante, monotono e faticoso della vita di lavoro; anche per chi - come me - è solo un manovale, come a dire uno che non conta nulla, che si può sempre rimpiazzare in qualche modo, che non ha influenze particolari.
Sono manovale nel cantiere, perché non ho nessuna specializzazione, non ho un «mestiere»: il mio lavoro mi piace anche perché sono a diretto contatto con i miei compagni, mi sposto qua e là sulla nave, sono «a servizio» di chi ha bisogno del mio intervento.
A questo livello, molto basso e poco appariscente, ci sono cose che crescono dentro, in fondo all'anima, come alla radice della propria vita: il senso della fraternità, il sentirsi veramente «compagno» di tutti, il ritrovare una dimensione tipicamente cristiana e sacerdotale come è la condizione di uno che serve, non con animo servile (gli operai dicono «da ruffiano») ma con la dignità di chi sa stare al proprio posto.
Così mi è successo di sparire dentro la massa del popolo che lavora, quasi succhiato dalla condizione della classe operaia: sento che la proposta di essere lievito per il regno di Dio mi trova preparato quasi «fisicamente»: il mio essere lì è unicamente giustificato e sostenuto dal dono di Dio. Dono di essere presi e incamminati su strade che da soli non avremmo certamente mai cercato e sulle quali si rimane in forza del suo amore e della Sua fedeltà.
Sento molto chiaramente - e gli anni che sono passati hanno rafforzato questa convinzione - che la mia vita appartiene interamente a Dio, è possesso di Gesù Cristo esistenza fruttificata dal suo amore misterioso e spesso incomprensibile. Ed è tanto vero quello che non sono niente, quelli che non contano e che agli occhi dei furbi sono considerati gente di nessun peso. Come a dire «zero».
La vita operaia, anche se sono mesi che la vivo direttamente, mi ha confermato in questa convinzione: proprio essendo niente perdendo tutto il potere e i privilegi della classe sacerdotale, entrando a far parte del grande popolo di coloro che servono con il loro lavoro il bene di tutti, è possibile recuperare la libertà di annunciare il Vangelo senza compromessi, di sentire la propria vita perduta per amore di Cristo e dei compagni.
Sento che il mio sacerdozio è qualcosa che Dio ha voluto collocare molto in basso, perché fosse il dono suo per la povera gente, seme nascosto nella loro vita e nel loro cammino faticoso, assoggettato alla legge del pane guadagnato col sudore della fronte: mi sembra che sia la posizione buona da cui si può partire per offrire ai propri fratelli il dono di fede, di speranza e d'amore - il sogno di un mondo nuovo, di uomo nuovo - ricevuto dalla bontà di Dio, radicato nel mistero della morte e della resurrezione di Cristo.
La vita operaia è diventata come lo spazio benedetto per comprendere come soltanto nella più totale «debolezza», nella condivisione dello sfruttamento, dell'egoismo, dello svuotamento interiore che pesa sul popolo lavoratore, e sull'intera storia umana, si possa recuperare la possibilità di accogliere il messaggio di Dio, la sua proposta di liberazione e salvezza, il suo progetto per un mondo costruito a misura del suo amore.
Mi pare di capire che Dio ha bisogno di manovali per il suo lavoro: non di «capi», di «maestri», di saggi e di furbi, di gente altamente qualificata e specializzata. Vuole creature disposte a perdersi nel deserto del vivere umano, a sparire come gocce d'acqua nella terra assetata, a lasciare i piedistalli che separano dalla vita dei poveri: per essere disponibili a qualunque servizio richiesto dall'amore, dalla verità, dalla fame e sete di giustizia e di libertà. Gente disposta a non contare nulla, perché Lui sia tutto nel cuore della creazione.
Manovale nel cantiere, mi sento manovale anche nella Chiesa: so benissimo di non avere «voce in capitolo», nessuna possibilità di influsso su una struttura organizzata in modo da eliminare i «testimoni scomodi» (come in un processo troppo scottante).
Il lavoro che svolgo nella Chiesa è come se non esistesse: sono undici anni che sono sacerdote, più di cinque anni che vivo di lavoro, mai nessuno di quelli che avrebbero dovuto interessarsi al mio impegno sacerdotale mi hanno chiesto niente. Il vescovo non è mai venuto a trovarmi, per sapere come stavo, le difficoltà, i sogni, le speranze, il condividere un po'di fatica, fare insieme un pezzo di strada, cercare insieme una pista nuova...
Avrei voluto essere, nella Chiesa, la voce dei miei fratelli contadini, pescatori, operai dire quello che loro non riescono a dire, ma che la vita che fanno manifesta chiaramente a chi ha occhi per vedere e orecchi per sentire: ma non c'era nessuno a raccogliere la voce (anche se c'era senza dubbio il cuore di Dio aperto e pronto a tutta l'accoglienza e la partecipazione).
Eppure, nonostante tutto, sono rimasto un manovale innamorato del suo lavoro, fedele al proprio impegno: sento di amare profondamente la Chiesa, il corpo di Cristo, il popolo di Dio. La Chiesa storica, così com'è con tutti i compromessi ed i tradimenti, legata al carro del denaro, invischiata nelle maglie della diplomazia, dei giochi di potere, paurosa spesso di gridare il Vangelo dall'alto dei tetti. Sento di amarla questa Chiesa, per il dono di Dio, per la grazia dello Spirito Santo: voglio dare il mio contributo di manovale perché essa cambi, si liberi, da tutto ciò che l'appesantisce e le impedisce di testimoniare la libertà e la giustizia di Dio fra gli uomini.


don Beppe


in Lotta come Amore: LcA giugno 1974, Giugno 1974

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