Un commento sulla "Prima"

Da «Una fede che lotta» a «Il cristiano dice: no», dall'aula magna della media «Jenco» alla Basilica di S. Andrea: ecco il cammino di un anno (o poco più) del teatro religioso popolare di don Sirio Politi, prete operaio della comunità del porto di Viareggio. La prima rappresentazione de «Il cristiano dice: no» ha avuto luogo la sera del Venerdì Santo nella Basilica si S. Andrea, appunto, ed è stata replicata la sera successiva nella chiesa parrocchiale di Bicchio, riscuotendo un successo caloroso, appassionato, diremmo partecipato per lo sforzo di un «collettivo» di giovani di buona volontà di portare alla folla dei presenti il messaggio della passione e della morte del Cristo, che si rinnova ogni volta che un uomo subisce il martirio perché sorretto fino alle estreme conseguenze dal coraggio della propria scelta.
Al di là delle deficienze tecniche, di una certa improvvisazione, delle limitazioni strutturali e logistiche insite in iniziative di questo genere, non possiamo non ammirare la determinazione con cui la comunità del Porto di Viareggio porta avanti il suo discorso di impegno religioso attraverso il congenialissimo mezzo della comunicazione diretta. Spettacolo incerto, quindi, ma quanto mai efficace, tanto più esaltante se si pensa che ha potuto finalmente essere offerto al pubblico nella propria sede naturale, legittima diremmo: la chiesa.
Quella di don Sirio non è un'azione contestatrice in senso stretto: è un'azione di ricerca della genuinità dello spirito religioso attraverso la sofferenza, che non può esimersi dal dire di no alla legge della guerra, al sistema, alla violenza del capitale, alla sopraffazione di ogni potere, ad ogni egoismo. Di qui la necessità di «rivalutare» il sacramento del Battesimo che, come viene chiaramente specificato nella presentazione del testo, dev'essere considerato «come inizio e cammino di vita nuova e diversa».
E la prima delle tre parti in cui si divide «Il cristiano dice: no» celebra appunto la liturgia del Battesimo per cinque bambini, figli di altrettante coppie di diversa estrazione sociale e che per bocca di uno dei due genitori esternano il proprio punto di vista sulla religione e, di conseguenza, sul senso del Sacramento.
Nella seconda parte scoppia il dramma dell'uomo e del cristiano nella sua più alta accezione. E' Francesco - uno di quei battezzati - figlio di contadini, e contadino pure esso, che si ribella all'imposizione, all'ordine che afferma di rispettare, e di seguire, i principi informatori della stessa fede, ma interpretati secondo ben altra angolazione. Incompreso, deriso, additato come traditore, si allontana verso il patibolo al grido: «O Dio, perdona loro, non sanno quello che fanno: non hanno avuto la luce, la grazia...».
Nell'atto conclusivo la tragedia si è già conclusa e ciascuno è posto di fronte alla propria coscienza. Le ultime parole sono della moglie di Francesco, e se apparentemente sono di disperazione, in effetti sono di speranza, perché suo marito ha avuto il coraggio di dire di no a tante cose, anche a costo della vita. Ed è da questi no, ripetuti non alle canne sbattute dal vento, ma agli uomini creati ad immagine e somiglianza di Dio, che può prorompere il sì purificatore, rigeneratore: «Sì al tuo Dio, insieme e nel nome di Cristo, e poi sì alla libertà, anche se al prezzo della morte, sì alla giustizia nel mondo, sì alla libertà, anche se al prezzo della morte, sì alla giustizia nel mondo, sì a incoraggiare ogni uomo a liberarsi da ogni oppressione per una diversa umanità, delle donne e degli uomini nuovi. Sì, sì, sì, sì... ecco, è possibile credere... sperare è dovere, è dovere, è dovere lottare, non rassegnarsi, non subire».
Ringraziamo don Sirio per questa nuova autentica testimonianza di fede, tanto più significativa perché rivolta dal popolo al popolo, con parole semplici, d'immediata ricezione. Dobbiamo inoltre dire che è stata proprio l'imperfezione del mezzo di comunicazione, nell'austera cornice della Basilica di S. Andrea, che ci ha fatto maggiormente apprezzare un lavoro che andrebbe diffuso capillarmente e che per noi vale molto di più di ogni rito indetto tradizionalmente per la Settimana Santa.

Il Telegrafo - mercoledì 17 aprile 1974
Loris Montani


in Lotta come Amore: LcA aprile 1974, Aprile 1974

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