Caro Roberto,
ho letto la tua "lettera ai cristiani di Roma" proprio come tu la presenti: il frutto di cinque anni di lavoro paziente e duro tra i baraccati dell'Acquedotto Felice. Un lavoro che io ho conosciuto agli inizi e seguito poi attraverso i giornali e le testimonianze di comuni amici.
Ho vissuto per tre anni a Roma e avvertivo i contenuti della tua proposta anche se è solo qui, a Viareggio, nella vita operaia, che ho compreso chiaramente quanto la fede sia dono e non privilegio che possa essere capitalizzato anche solo per un po' più di tranquillità nella vita. Veramente, come tu dici, quand'ero seminarista e poi prete integrato nella vita ecclesiastica, «vivevo nell'illusione e nella superbia di me stesso, ma quando mi spogliai di ogni privilegio e mi feci povero tra i poveri, ricevetti da questi il più grande servizio che potessi aspettarmi: ascoltai e mi fecero conoscere il giudizio che essi davano su me e sulla chiesa. Mi misero a nudo e fui costretto a confidare in Dio là dove credevo di poter fare da me. Questo è il più alto atto del loro magistero. Guai se lo evitassimo per paura».
Ho raccolto la tua scelta di vivere come contadino sulla montagna ciociara, pensando per contrasto, a quanti - preti e cristiani - vogliono un immediato riscontro alla loro presenza ed hanno quindi bisogno di essere incaricati di mille cose, di grandi parrocchie, di strategie diocesane, per sentirsi sicuri nella fede, per non entrare in crisi. Non è solo il rispetto per una persona che ha spirito d'iniziativa e paga di persona, ma anche e soprattutto la gioia per una scelta motivata unicamente dalla fede in un cammino - ed è la tua vita come la vita d'ogni cristiano - totalmente offerto a Dio che fa conoscere ad ognuno "il tempo in cui la lingua dovrà essere sciolta e il tempo in cui dovrà essere legata al palato".
Scelta compiuta non in vista delle opere da realizzare, ma per un'autenticità di rapporto con una terra, con un popolo emarginato, «non appetibile». Servizio che offri a tutti «perché si capisca che ciascuno di noi è tenuto ad andare là dove nessuno andrebbe».
Sono molti i motivi di riflessione che tu offri ai cristiani di Roma e diversi di essi toccano la coscienza dei cristiani in ogni angolo del mondo. Come già scrissi in occasione della lettera sul problema dei baraccati, la Chiesa di Roma mancherebbe ad un'ulteriore appuntamento con la ricchezza di doni di cui lo Spirito la circonda, se rinunciasse ad accogliere anche questo contributo. Mi risulta che questo stia avvenendo, gettando un'ombra strana sul Convegno pastorale diocesano che dovrebbe accogliere contributi di questo livello. Nella presentazione, infatti, che il Regno-doc. 3/1974 fa alla tua lettera (riportandone anche il testo integrale), è scritto che essa è stata consegnata prima al santo padre, poi al cardinale vicario e al presbiterio romano. Il consiglio presbiterale romano ha insabbiato la lettera. Evidentemente - continua la presentazione de il Regno -, se n'è fatta una lettura esegetica; e, in chiave esegetica, i cesellatori dell'ortodossia troveranno molto da criticare. Si parlerà di generalizzazioni gratuite, di affermazioni personalistiche, di un certo radicalismo che contraddice alla spiritualità della figura e dell'opera di Cristo, di utopie, ecc. Senza comprendere che questo testo non è per l'esegesi, ma per la riflessione e la conversione.
E' uno scoglio questo nel quale anche noi, nel passato come oggi, abbiamo battuto la testa. E' la giustificazione per cui intorno alla nostra scelta si crea come un cordone sanitario perché la chiesa non possa risentirne. Anche a noi, come a te, è stato detto che i superiori non potevano compromettersi con la nostra particolare esperienza. Anche noi non riusciremo a capire, come te, perché non ci siano esitazioni a compro-mettersi, per esempio, con l'esperienza dei cappellani militari...
Eppure continuiamo, senza perderci di fiducia, ad offrire la nostra proposta di fede perché è vero che «non possiamo farci amanti di una chiesa pura e darle l'ostracismo quando sembra sovrastata dall'oscurità: Dio ha sempre amato il suo popolo».
Ci sentiamo con te «voce» di un popolo che non ha diritto alla parola perché pochi lo cercano, il potere del denaro lo divide. «Voce» non fatta di parole, ma di una vita.
don Luigi
Vogliamo una città diversa. Ma sappiamo benissimo che una città diversa non si ottiene con discorsi moraleggianti, bensì con profondi mutamenti di comportamenti e di strutture sociali ed economiche, su una base di maturità e su un severo esame di coscienza da parte di tutti e in prima linea dei cristiani.
Card. Ugo Poletti
in Lotta come Amore: LcA marzo 1974, Marzo 1974
Luigi Sonnenfeld
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